I cacciatori di piante

Siete una pianta nascosta in un posto sperduto, e tutto quello che fate è pavoneggiarvi al sole per attrarre qualche insetto impollinatore. Finché un bel giorno vi si presenta davanti un signore stremato, con una barba di diverse settimane, che vi guarda con occhi che brillano. Si accovaccia e disegna il vostro ritratto su un quadernetto. Se siete una pianta di aspetto sgraziato, vi darà il nome di un suo nemico. Lasciatelo fare: in fondo è un cacciatore di piante, uno strano mix tra avventuriero, scienziato e agente segreto. Nel diciannovesimo secolo questi singolarissimi personaggi abbondavano, oggi sono più rari di ogni pianta. Mary e John Gribbin, ricercatori all’Università del Sussex, ne ritraggono undici in Cacciatori di piante (ed. Raffaello Cortina, pp. 380, euro 28). Parliamo di uomini come Robert Fortune (1812-80), capace, grazie alle sue doti di trasformista, di passare per cinese in Cina e avere libero accesso alle regioni più interne, così da sottrarre 25.000 piante di tè che gli inglesi ripiantarono in India spezzando il monopolio cinese. O donne come Marianne North (1830-1890), che cominciò a girare per il mondo dopo i quarant’anni e dipinse con accuratezza scientifica piante di tutti i continenti. Ricchi come Joseph Hooker (1817-1911), amico personale di Darwin, e meno ricchi come Thomas Lobb (1817-1894). Quando i due si incrociarono in India, Hooker viaggiava in portantina con venti domestici e Lobb a dorso di mulo. L’incontro stupì Hooker per l’insipienza di Lobb “Parla con superficialità di piante e semi e a giudicare da quanto dice non può valere 6 penny. Dice che le sue piante sono tutte morte e che è inutile mandare radici e bulbi a casa da qui”. E’ probabile che si trattasse di una astuta recita: Lobb riuscì ben prima del suo rivale a trovare le preziose orchidee blu ed altri fiori che entrambi cercavano.

Il cacciatore di piante ideale univa astuzia e determinazione, come come l’inglese Richard Spruce (1817-93) che, seppure ritiratosi dall’insegnamento per cattiva salute, se ne andò per quindici anni in Amazzonia, superando tormenti di ogni tipo (pipistrelli vampiro e formiche i più terribili), nonché trame omicide ordite dagli accompagnatori indios che, ignari della rapidità con cui Spruce aveva appreso loro lingua, complottavano in sua presenza. «Spruce capì subito che gli europei avevano una pessima influenza sugli indigeni dell’Amazzonia» racconta Gribbin «per lui gli indios non toccati dalla civiltà, che andavano in giro nudi, erano molto più affidabili ed onesti di quelli civilizzati: “Nonostante tutte le storie sui cacciatori di teste nella giungla, Dio mi salvi dagli indios con vestiti addosso!” scrisse». Spruce riuscì a tornare in Inghilterra, e fu un bene per tutti perché portò con sé il chinino, fondamentale nella lotta alla malaria. Come botanici, Spruce e Fortune sono gli eredi spirituali di un uomo più illustre e assai più bizzarro di loro: Linneo (Carl Nilsson Linnaeus, 1707-78), naturalista svedese padre della nomenclatura doppia che usiamo ancor oggi per ordinare animali e piante secondo il genere di appartenenza (come Homo) e un attributo per la specie (come sapiens). «Fu un classificatore ossessivo, maniacale» spiega John Gribbin «Compilava liste di ogni tipo. Da bambino elencò tutti i suoi giocattoli, da studente universitario tutti i suoi colleghi e, nel suo testo Bibliotheca Botanica del 1735, ordinò in ben sedici categorie i botanici, situandosi in una sorta di “seconda classe”, cosa insolita per lui». Già, perché Linneo si dava molto da fare per alimentare il suo mito: «Nei sabati estivi amava condurre escursioni con studenti e botanici dilettanti, costretti a indossare la linneiana “uniforme botanica” (pantaloni scampanati, giacca corta, cappello a larga tesa e parasole). Al tramonto si rientrava in città con sventolìo di stendardi e squilli di corni da caccia e trombe, proprio come un esercito vittorioso» commenta Gribbin, sorridendo. Nonostante i suoi scritti autobiografici abbondino di avventure in stile barone di Münchausen – compreso lo scalare montagne della catena dorsale scandinava, a suo dire più alte di un miglio svedese del tempo (ossia 10 chilometri, povero Everest!) – Linneo viaggiò ben poco: appena sei mesi in Lapponia. Sulle sue carte, un’impresa epica: «Poco credibili sono le avversità sovrumane che dice di aver superato in quel periodo e altrettanto dubbie le sue vanterie, come il fatto che i nativi Sami non riuscissero a reggere il suo passo di marcia “I lapponi lamentavano di non essere mai stati ridotti in uno stato simile: mi facevano pena!”». Sempre stravagante nell’abbigliarsi, dal Nord riportò un “abito tradizionale Sami” posticcio, che assemblò personalmente mischiando un cappello estivo da donna, un mantello invernale da uomo e stivali che i Sami producevano solo per i forestieri. Il raro connubio tra la sua immaginazione e la sua scrupolosità ci ha regalato l’orologio floreale, disposizione circolare di ventiquattro tipi di fiori ordinati secondo l’ora del giorno in cui si aprono. Nel 1761 gli fu conferito un titolo nobiliare, e volle cambiare il suo nome nel più vezzoso Carl von Linné. Meno vanitoso di Linneo e ostinato al limite della sventatezza fu un altro degli eroi di Gribbin: lo scozzese David Douglas, che, quando nei suoi viaggi nel Nord America si trovava di fronte ad una montagna, la scalava semplicemente “perché era lì”, senza equipaggiamento adeguato, cosa che per il riverbero della neve gli costò, negli anni, la vista. Attraversò il Canada a piedi insieme ai mercanti di pellicce e scoprì numerose specie di abeti il cui legno divenne prezioso per l’edilizia. Anche la sua morte fu avventurosa: cadde in una trappola per animali alle Hawaii insieme ad un torello infuriato. Botanici così simili ad Indiana Jones si possono trovare solo nei libri? «Oggi c’è meno azzardo: le spedizioni sono molto più organizzate e si è sempre in contatto con la base operativa, non si va allo sbando come nel diciannovesimo secolo, dove servivano mesi per comunicare con la madrepatria» spiega John Gribbin. «E poi oggi è più difficile prendere piante in giro per il mondo per introdurle da qualche altra parte, da un lato perché si è più consci dei rischi legati alle specie invasive, dall’altro perché i governi tutelano con più attenzione le loro risorse vegetali». Addio agli esploratori “cani sciolti”, quindi: l’ultimo erede di quella tradizione è.Tom Hart Dyke, eccentrico giovane aristocratico inglese che ha collezionato oltre 10.000 specie di piante di tutto il mondo nel suo World Garden of Plants, nel Kent. Nel 2000 le FARC lo rapirono per nove mesi mentre era in Colombia a caccia di orchidee rare, e la sua prima preoccupazione fu che i miliziani lo lasciassero continuare a raccogliere fiori. «Più che cercare per il mondo specie particolari, o selezionarle attraverso gli incroci, oggi possiamo costruire ex novo la pianta che desideriamo» commenta Mary Gribbin. «L’esempio migliore è la rosa blu, miraggio di generazioni di botanici, prodotta da una società biotech americana, la Florigene, per conto dell’azienda alimentare giapponese Suntory che la utilizza a scopi pubblicitari». Aumentate artificialmente nel corredo genetico della rosa la produzione di delfinidina, enzima che dà il colore azzurro. Silenziate un gene naturale che blocca la delfinidina. E avrete una rosa blu. Ma tante avventure in meno.      (© La Repubblica / Giuliano Aluffi)